Gli urlatori, questo moderno flagello della musica leggera, non sanno certamente di avere il loro antenato, anzi il loro eroe eponimo in un’antica leggenda indiana connessa alle origini e alla teoria della musica. Secondo il “Ramayana”, venerabile poema epico di Valmiki, il demone, Ravana, viaggiando sul suo carro volante, s’era avvicinato al monte Kailasa, dimora di Siva. Il guardiano Nandin gl’interdisse l’accesso nel giardino celeste e immobilizzò il suo carro (sembra si tratti del più antico esempio di sabotaggio). Ravana, in collera, cercò di sradicare la montagna. Siva allora appoggiò a terra l’alluce, e la mani di Ravana furono prese sotto il peso. Egli urlò cosi forte che Siva, divertito, lo chiamò appunto Ravana, l’urlatore. Per ottenere la grazia Ravana dovette cantare per mille anni gli inni del “Sama-veda”, e ottenere d’essere liberato. O, secondo un’altra lezione del testo, Siva dai tre occhi avrebbe liberato l’Urlatore, compiaciuto per la purezza delle note ch’egli sapeva trarre da un budello secco.
Tanto si apprende dall’esauriente commento apposto da Alain Daniélou e N. R. Bhatt alla loro edizione critica del “Gitalamkara”, ossia “Retorica Musicale”, l’opera originale di Bharata sulla musica, risalente a un’epoca non precisata, anteriore all’era cristiana, e ora publicato dall’Istituto Francese d’Indologia di Pondichery : i distici del testo in caratteri tanto decorativi quanto incomprensibili, e fortunatamente un’accurata traduzione francese a fronte.
Nato a Parigi nel 1907 da famiglia segnalata nel mondo delle arti e della politica, Alain Daniélou sembra un francese come tutti gli altri. A vederlo, correttamente vestito all’europea, sbarbato, senza turbante né perle appiccicate alle narici, nessuno direbbe che conosce perfettamente il sanscrito, parla correntemente l’indù e suona la vina, l’antico strumento a corde indiano, come un professionista, componendo dei raga secondo tutte le regole dell’arte. Il fatto è che, dopo aver compiuto studi scientifici e musicologici in Francia e in America, e dopo aver viaggiato in Africa, nel Medio Oriente, in Cina, in Giappone e in Indonesia, questo tranquillo signore che non ha per nulla l’aspetto del giramondo e dell’esploratore, si è stabilito in India, dedicandosi allo studio, ma sarebbe dire all’assimilazione, della musica e della filosofia indù. Nominato professore all’università di Benares nel 1949, vi riuni una collezione unica di manoscritti sulla teoria musicale. Nel 1954 ebbe la direzione del centro di ricerche e della biblioteca di Adyar, a Madras, e infine dal 1956 lavora all’Istituto Francese d’Indologia a Pondichéry, applicandosi alla registrazione dei più antichi monumenti della musica tradizionale d’India, Indocina, Afghanistan e Indonesia. L’abbiamo sentito due anni or sono a Venezia, in un Congresso musicale indetto dall’Unesco, perorare con fervore apostolico in favore d’un’instaurazione di contatti tra le due civiltà, occidentale e orientale, che ormai, costituiscono la sua doppia patria intellettuale e delle quali egli è vivente anello d’unione; e cercare d’indurre le istituzioni europee ad intervenire contro il genocidio culturale che in quei lontani paesi si va rapidamente consumando con la inesorabile obliterazione delle antiche maniere locali di canto e di suono, soppiantate dall’invasione delle orchestrine di musica leggera, dei juke-boxes, e dei cantanti all’americana, all’italiana o alla francese. I discendenti di Valmiki cantano le canzoni di Modugno, di Yves Montand, di Doris Day e di Claudio Villa. Se l’Europa non sentirà la responsabilità della propria maggiore maturità culturale, nel giro di una o due generazioni al massimo scomparirà senza lasciare tracce di sè un immenso patrimonio, un intero mondo poetico-musicale.
A differenza dei testi dei “Purana”, anch’essi pubblicati da Daniélou e Bhatt nella medesima collezione, questo trattato di Retorica musicale attribuito a uno dei tanti Bharata dell’antica sapienza indiana, non si limita a un’arida catalogazione grammaticale e va oltre la semplice nomenclatura definitoria. Perciò, alcuni dei suoi 15 capitoli si lasciano leggere con spasso anche dal profano che si accontenti d’istituire i più superficiali confronti tra un antico costume musicale esotico, e quello in cui viviamo. Il primo capitolo esalta il valore dell’arte musicale sulla scorta di considerazioni etico-utilitarie che non sono poi tanto lontane dalla concezione moralistica ed educatrice che della musica aveva G. S. Bach. “L’arte musicale ci reca la gioia in mezzo alle nostre pene. Essa appare come la distruzione del dolore e della tristezza di tutti gli universi”. Un cantore, anche brutto, ottiene tutto quel che vuole quando un dolce canto penetra nell’orecchio d’una bella. E la musica cantata per i re è fonte di grandi richezze, d’onori, di piaceri e di gloria nel mondo. Ma sopra queste interessate speculazioni di un’arte eminentemente profana sta la “liberazione dell’anima” a cui pervengono gli uomini “senza desiderio”, i quali cantino secondo la loro capacità. E poi chiara, netta sorprendente nella sua limpida formulazione, l’affermazione dell’autonomia estetica : “L’elogio d’un re può essere cantato da abili musicisti, al solo scopo di far della buona musica, anche se non ne sperano nessun vantaggio e perfino se appartengono alla tribù dei suoi rivali”. Bellissime parole da richiamare nelle polemiche contro le deformazioni propagandistiche dell'”art engagé”.
Il secondo capitolo, sulla purezza della voce, le qualità e i difetti del canto, non manca di referimenti attuali. “I cattivi cantori sono di sei specie : quelli dalla voce rauca (come quella d’un corvo), quelli che scuotono la testa, quelli che lasciano pendere le labra o cantano col naso, quelli che rubano le canzoni degli altri e quelli che sputano, (o piangono)”. Ossia, condanna del canto veristico, col singhiozzo nella voce. Molti distici sono dedicati ai rimedi per assicurare la limpidezza della voce, e prescrivono ciò che il cantore deve o non deve mangiare. “Anche se ha voce giusta, il cantore che mangia spesso olio o fritture all’olio diventa come un corvo”. Fra i 14 “difetti del canto”, molti sono ben conosciuti pure in Occidente : per esempio l'”udghusta”, ossia stridulo, tremolante, il “kaka-svara”, ossia rauco come il grido del corvo, il “siro-lina”, di testa, l'”anunasika”, nasale, il “visvara”, stonato e, più interessante di tutti, il “virasa”, che vuol dire senza espressione. Un altro antico testo, citato in nota dal Daniélou lo spiega efficacemente : “La mancanza di concentrazione durante il canto lo rende virasa”. Quanti cantanti, pianisti, violinisti e direttori d’orchestra “virasa” affliggono le nostre quotidiane esperienze musicali ! Ben inteso, questi testi indiani di teoria della musica si dovrebbero leggere in maniera ben più seria, cogliendo le singolari analogie con il sistema musicale trasmesso dall’antica Grecia alla civiltà occidentale. E per chi voglia accingersi a una meno epidermica conoscenza di queste cose, il Daniélou ha fornito un efficace strumento con un “Traité de musicologie comparée”, publicato l’anno scorso per le “Actualités scientifiques et industrielles” dell’editore Hermann, dove sono appunto raffrontate, con chiarezza e concisione, le caratteristiche dei sistemi musicali in uso presso i Cinesi, gli Indù, i Greci antichi e il mondo moderno.
Data: La Stampa 1960
Sorgente: VADEMECUM DEI CANTANTI